Alzheimer: ancora non è rivoluzione, ma oggi esiste una strada percorribile
Viviamo l’inizio di una nuova era nella gestione dell’Alzheimer.

In Italia, le patologie neurodegenerative rappresentano una delle principali sfide sanitarie legate all’invecchiamento della popolazione.
Tra queste, il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza, colpendo progressivamente memoria, funzioni cognitive e autonomia. Le stime, in linea con le proiezioni demografiche, indicano un aumento significativo dei casi nei prossimi decenni.
L’Alzheimer è una malattia progressiva: si manifesta spesso in età avanzata e peggiora nel tempo, compromettendo la capacità di compiere anche le azioni più semplici.
Tra i segni distintivi della patologia vi sono le placche amiloidi, depositi anomali rilevabili nel cervello dei pazienti. Sebbene possano presentarsi anche in altre malattie, la loro identificazione è un elemento chiave per la diagnosi della malattia di Alzheimer.
“Esistono oggi criteri per una diagnosi biologica dell’Alzheimer” spiega Luca Roccatagliata, professore dell’Università di Genova e neuroradiologo presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, intervenuto durante il Congresso Nazionale della Neuroradiologia AINR.
“Esistono criteri di diagnosi che si avvalgono di biomarcatori, come la PET con traccianti specifici per le placche amiloidi o l’analisi di biomarcatori fluidi.
Per quanto riguarda i biomarcatori fluidi, sono molecole che possono essere quantificate sul liquido cefalo-rachidiano, con un prelievo relativamente invasivo. Ma oggi iniziano ad essere disponibili test diagnostici su sangue, approvati anche dalla FDA”.
Questo significa che esiste la possibilità di individuare l’Alzheimer prima dell’insorgenza dei sintomi clinici. Infatti i biomarcatori iniziano a modificarsi anche 15-20 anni prima che la malattia si manifesti.
Un recente studio cinese pubblicato sulla rivista NEJM nel 2024 ha confermato che i biomarcatori possono rivelare le modificazioni patologiche con largo anticipo. “La diagnosi biologica precoce è cruciale”, continua Roccatagliata, “perché consentirà di selezionare i pazienti candidabili alle nuove terapie farmacologiche”.
Proprio in questo ambito si colloca un’importante novità: l’approvazione da parte della FDA di due anticorpi monoclonali in grado di “ripulire” il cervello dalle placche amiloidi. I risultati clinici, confermati da studi internazionali, indicano un rallentamento seppur modesto della progressione della malattia.
“Non si tratta ancora di una cura definitiva, ma è un passo decisivo”, sottolinea Roccatagliata. “Questi farmaci rappresentano la fine del nichilismo terapeutico: per la prima volta possiamo contare su un’efficacia biologica e clinica reale. È l’inizio di una nuova era nella gestione dell’Alzheimer”.
Fondamentale, in questo percorso, è il ruolo del neuroradiologo, che con informazioni ottenute dalla risonanza magnetica contribuirà alla gestione del paziente sia nella fase della selezione dei candidati al trattamento sia nel monitoraggio della sicurezza del trattamento stesso.
L’uso di anticorpi monoclonali, infatti, è associato a possibili effetti collaterali noti come ARIA (Amyloid-related imaging abnormalities), nella maggior parte dei casi asintomatici, ma da tenere sotto osservazione con tecniche di imaging di risonanza magnetica.
“Oggi siamo di fronte a una fase di transizione: non una rivoluzione compiuta, ma un sentiero finalmente tracciato”, conclude Roccatagliata.
“Con l’avanzare della ricerca e l’introduzione di strumenti diagnostici più accessibili, lavoriamo per trovare il percorso migliore per aiutare le persone che dovranno affrontare questa patologia nel prossimo futuro”.